La parte dell’occhio sensibile alla luce è la retina. É una “pellicola” biologica meravigliosa. I suoi pixel sono 100 milioni di cellule chiamate bastoncelli e altri 5 milioni di cellule chiamate coni. Le prime, più sensibili, formano immagini in bianco e nero, le seconde richiedono più luce ma ci regalano la gioia della visione a colori. Coni e bastoncelli sono in sostanza cellule del cervello che si sono modificate per catturare la luce e trasformarla in segnali elettrici. Attraverso il nervo ottico, questi segnali raggiungono la regione cerebrale occipitale, dove avviene la percezione delle immagini.
La sensibilità della retina è molto alta: l’evoluzione ha fatto sì che bastino pochi fotoni (c’è chi dice un solo fotone) per eccitare un bastoncello. L’ambito delle lunghezze d’onda percepite va da 400 a 700 nanometri, quanto basta a farci distinguere migliaia di sfumature di colori. In astronomia però da trent’anni l’uomo non usa più né la sua retina fatta di cellule né la gelatina delle lastre e delle pellicole fotografiche. Abbandonato il processo chimico per un processo fisico, oggi gli astronomi usano una retina artificiale fatta di silicio nota con la sigla CCD, da Charge-Coupled Device, cioè dispositivo ad accoppiamento di carica.
Benché meno noto al pubblico, il CCD è stato per l’astronomia una rivoluzione importante quanto quella del telescopio, ma la sua rilevanza è grande anche nella vita quotidiana perché sono CCD i sensori delle macchine fotografiche e delle telecamere che ci portiamo in vacanza. Tanto per dare un’idea del progresso nella registrazione delle immagini, mentre la pellicola fotografica cattura il 2 per cento della luce visibile, il CCD arriva al 70 per cento ed è sensibile anche al vicino infrarosso. Inoltre le immagini dei CCD si prestano ad essere elaborate per estrarne il massimo di informazione e possono essere archiviate in piccole ma potentissime memorie elettroniche. Grazie ai CCD piccoli telescopi amatoriali hanno acquisito prestazioni degne di Monte Palomar e grandi telescopi professionali competono con i più potenti strumenti spaziali.
Andrea Frova, già professore ordinario di fisica generale all’Università di Roma “La Sapienza”, quando era un giovane ricercatore ha avuto la fortuna di lavorare nel gruppo che nel 1969 fece nascere il primo CCD. Non a caso il lieto evento ha come scenario i laboratori della Bell Telephone a Murray Hill nel New Jersey, gli stessi dove alla fine degli Anni 40 era nato il transistor, dove fu sviluppato il laser e dove nel 1965 si scoprì la radiazione cosmica di fondo.
Veneziano di nascita, appassionato di musica, autore di molte pubblicazioni scientifiche ma anche di fortunati libri divulgativi, giunto a 76 anni Andrea Frova ha deciso di raccontarci la sua vita alquanto straordinaria e l’ha fatto nel libro “La passione di conoscere” (BUR, 336 pagine, 12 euro). E’ una autobiografia, ma non soffre del narcisismo delle autobiografie. Al centro del racconto, più che l’autore, c’è la scienza di cui egli è stato protagonista e testimone: la fisica dello stato solido dall’invenzione del transistor alle più recenti memorie elettroniche che fanno stare una intera biblioteca in una scheggia di silicio.
I CCD sono un capitolo dell’avventura: alla fisica e alla tecnologia che ne sono i presupposti, Frova lavorò con Gianfranco Chiarotti all’Università di Pavia negli stessi anni in cui le prime ricerche fervevano negli Stati Uniti, e per questo fu chiamato ai Bell Laboratories.
Il primo transistor funzionò la vigilia di Natale del 1947. I padri furono tre: John Bardeen, Walter Brattain e William Shockley. Tutti e tre ebbero il Nobel per la fisica nel 1956. Bardeen, caso unico nella storia del premio, ha ottento un secondo Nobel nel 1972 per il suo contributo alla teoria della superconduttività. Passarono quasi dieci anni prima che diodi al germanio e transistor, inizialmente considerati semplici curiosità da laboratorio, si affermassero industrialmente.
Da bricoleur, ho vissuto anche io quel tempo – il tramonto delle valvole termoioniche e l’alba dei componenti elettronici allo stato solido – costruendomi rudimentali ricevitori radio con un diodo al germanio, un condensatore variabile a mica o ad aria e una bobina di sintonia; poco dopo passai ai transistor, gli OC 70 e 71 della Philips per l’amplificazione in bassa frequenza e gli OC 171 per l’alta frequenza. In questi dispositivi, all’epoca ancora considerati esotici dai radioamatori, ho speso tutti i soldi che oggi i ragazzi spendono per andare in discoteca e per giocare con le macchinette mangiasoldi gestite paritariamente dallo Stato e dalla malavita. Una conseguenza vistosa dei transistor sul costume furono le radioline portatili che permisero ai tifosi di andare allo stadio e seguire contemporaneamente i risultati di tutte le altre partite.
Padri del CCD furono George Smith e Willard Boyle. Frova, che aveva lavorato con loro fino a due anni prima, fu invitato alla bicchierata che di solito ai Bell Laboratories si organizzava in occasione di risultati scientifici importanti. Bicchierata non dà l’idea giusta. Ogni scienziato della compagnia pagava un giro di whisky. Alla fine George Smith raggiunse la sua auto strisciando carponi sul prato davanti al locale. Fu un miracolo se tutti arrivarono a casa sani salvi e senza incappare in un controllo della polizia. Probabilmente un’altra sbronza simile Smith e Boyle se la presero nel 2009 quando, con quarant’anni di ritardo, arrivò anche per loro il premio Nobel. Oggi Boyle è un tranquillo pensionato e abita nel nativo Canada. Anche George Smith è in pensione, ma vive su una barca a vela dopo aver fatto il giro del mondo con la moglie Janet.
Ecco, di storie così il libro di Frova è pieno, e coprono il mezzo secolo di fisica dello stato solido che abbiamo alle spalle e che ha generato computer, telefonini, Gps, micro-telecamere, lettori di Cd e Dvd, tv digitale, impianti Hi-Fi, celle fotovoltaiche, i-pod e i-pad, tablet e mille altri aggeggi elettronici senza i quali non sapremmo più vivere. Queste sì, sono rivoluzioni. Cose che cambiano il mondo. E infatti Frova, nelle ultime pagine, propone di applicare il metodo scientifico ai problemi politici e sociali sostituendo la ragione alla chiacchiera.
Dal 1969 strada se n’è fatta. I primi sensori avevano pochi pixel e costavano un occhio – mai metafora fu più vicina al reale in tutti i sensi. Il più recente grande sensore ottico a CCD è stato assemblato per la missione astrometrica europea “Gaia”, concepita per mappare un miliardo di stelle della nostra galassia. Misura 100 centimetri per 50 e ha complessivamente un miliardo di pixel. Per ottenerlo sono stati affiancati 106 CCD di 6 per 4,7 centimetri fissandoli e cablandoli su una base di carburo di silicio, un materiale quasi del tutto insensibile agli sbalzi di temperatura. Questo supporto pesa 20 chilogrammi, mentre i sensori ottici hanno uno spessore di poche decine di micron. Altre file di CCD costituiscono lo spettrometro per misurare le velocità radiali, il fotometro nel rosso, il fotometro nel blu, la mappa a tutto cielo e i due monitor sul fronte d’onda dei sensori che hanno il compito di mantenere l’angolo di 106,5 gradi tra i due telescopi della navicella. La camera di “Gaia” è di gran lunga la più grande che sia stata progettata per il piano focale di una missione spaziale. La navicella sarà collocata in orbita attorno al Sole in uno dei Punti di Lagrange, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra.
A proposito di tecniche per fissare le immagini dell’universo che catturiamo con telescopi e sonde spaziali, c’è un paradosso. Conosciamo abbastanza bene le date delle prime fotografie astronomiche: per esempio la prima immagine fotografica di una stella è del 17 luglio 1850. Non è identificabile, invece la data esatta della prima fotografia astronomica scattata con un sensore CCD: l’applicazione, negli Anni 70 del secolo scorso, era nell’aria, e probabilmente furono in molti a sperimentare la nuova tecnologia. Inoltre ormai la scienza, da attività individuale, era diventata un’impresa collettiva, e in ogni caso i test con i CCD venivano cancellati per dare spazio a nuovi test.
E’ interessante notare, però, come sia la fotografia classica, basata sulla chimica, sia la fotografia contemporanea, basata sulla fisica, siamo legate a filo doppio con l’astronomia. Fu il fisico e astronomo François Arago a dare la prima notizia della neonata tecnologia fotografica all’Accademia delle Scienze francese il 7 gennaio 1839. Ma il suo intervento non si fermò lì. Arago comprese subito le potenzialità della fotografia sia nella vita civile sia nella ricerca scientifica e qualche mese dopo convinse lo Stato francese ad acquisire il brevetto dell’invenzione in cambio di una pensione annuale di 6000 franchi a Daguerre e di 4000 a Isidoro, il figlio di Niépce, i due inventori della fotografia.
Il tentativo di applicare la fotografia alla ricerca astronomica fu immediato. Su richiesta di Arago, lo stesso Daguerre provò subito a fotografare la Luna. Il risultato fu una confusa macchia chiara. L’ostacolo era la bassissima sensibilità della lastra, ma Arago fin dall’inizio affermò che sarebbe stato possibile ottenere “immagini dalle sfumature perfette” utilizzando un telescopio con montatura equatoriale, e quindi in grado di seguire il movimento degli astri. John William Draper, padre di Henry Draper, autore di un famoso catalogo astronomico, ottenne la prima foto della Luna degna di questo nome nel marzo 1840 e, il 27 luglio 1842, la prima fotografia dello spettro solare. Di otto anni dopo, 17 luglio 1850, come già detto, è la prima immagine fotografica di una stella: con una posa di 100 secondi al fuoco diretto di un rifrattore di 38 centimetri Bond e Whipple riuscirono a riprendere Vega, la stella più brillante del cielo estivo e la quinta per luminosità di tutto il cielo.
Il Sole fu il primo soggetto astronomico a dare risultati scientificamente interessanti. L’ottico francese Lerebours nel 1842 scattò alcune immagini alla nostra stella ma Arago giudicò deludenti i suoi risultati. La prima fotografia astronomica di cui esista una riproduzione è una immagine del Sole di 12 centimetri di diametro ripresa il 2 aprile 1845 da Foucault e Fizeau con una esposizione di 1/60 di secondo: mostra alcune macchie solari e l’oscuramento al bordo del disco solare. Solo nel 1854 Joseph Bancroft Reade, usando un telescopio di 61 centimetri e 23 metri di distanza focale riuscì a mostrare la granulazione della fotosfera solare, ma già il 28 luglio 1851 alla Specola di Koenisberg durante una eclisse totale Berkowski era riuscito a fotografare le protuberanze e la corona. Intanto la sensibilità fotografica faceva rapidi progressi grazie all’astronomo John Herschel, figlio del grande William, scopritore del pianeta Urano.
In Italia pionieri della fotografia astronomica furono padre Francesco de Vito, che nel 1843 tentò senza successo di fissare in un dagherrotipo una eclisse di Sole, e padre Angelo Secchi, che nel 1851 ottenne buone immagini della Luna e dell’eclisse di Sole del 28 luglio con il metodo della proiezione. “L’immagine ingrandita dall’oculare – scrive padre Secchi – ha sulla lamina un diametro di 75 millimetri. Un poco di vento agitando il cannocchiale ha prodotto qualche sfumatura ai contorni, ma non tanta da nuocere alla precisione dell’immagine”.
Passano sei anni e padre Secchi sperimenta tra i primi la tecnica fotografica al collodio umido, che permette esposizioni molto più brevi: dal gennaio al dicembre 1857, con l’aiuto del farmacista romano Francesco Barelli, realizza il primo atlante fotografico della Luna in tutte le sue fasi, dalla prima falce crescente all’ultima falce calante. E furono le fotografie dell’eclisse totale di Sole del 18 luglio 1860 ottenute in luoghi diversi della Spagna da padre Secchi e Warren de la Rue a dare la prova definitiva che corona solare e protuberanze sono fenomeni solari reali e non giochi di luce atmosferici.
Fonte: La Stampa del 28.01.2013
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